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Teodoro Lechi – Sez.Storica Napoleonica

Fu questi il più fortunato e il più onorato, ed anche il più longevo dei fratelli Lechi ché nato a Brescia nel 1778, egli morì a Milano nel 1866. Si era arruolato nella Legione Bresciana, il 18 marzo del 1797, allo scoppio di quella Rivoluzione cittadina che vide in armi l’intera famiglia dei giovani Lechi, insieme ad altri animosi che si erano collegati giurando di vivere liberi o di morire.Teodoro Lechi considerò sempre come il suo più bel vanto l’essere stato uno dei trentasei patrioti pionieri di quell’insurrezione.

Era allora diciannovenne, e il suo battagliero esordio decise della sua vita facendo di lui un soldato. Il suo valore rifulse subito così che già nel maggio agli era capitano nelle file delle milizie cisalpine, con le quali partecipò bravamente a molte delle gesta di quel periodo e delle quali seguì le sorti liete o tristi, migrando in Francia nell’ora del tracollo, per tornare alla riscossa con Bonaparte, attraverso le Alpi d’Aosta, alla testa d’un battaglione della Legione Italica. Le nuove e trionfali vicende militari ebbero il tributo del suo coraggio e del suo slancio. Nel 1803 egli era colonnello e nel 1805 Napoleone lo eleggeva suo scudiero e in Parigi gli consegnava le aquile e gli stendardi per i granatieri della Guardia Imperiale di cui gli affidava il comando per la campagna che si apriva. Con essi egli si distinse in modo speciale alle battaglie di Ulma e di Austerlitz. Nominato poi generale della Guardia stessa, fu per un triennio in Dalmazia.

Chiamato nel 1809 alla casa militare del Principe Eugenio come generale di brigata e capo di stato maggiore dei granatieri, segui il medesimo Viceré nella campagna del Veneto e della Corinzia, contribuendo alle vittorie di Raab e di Wagram, che gli meritarono il titolo di barone dell’Impero. Nel 1812 accompagnò il Viceré in Russia come comandante di tutta la sua Guardia, di cui guidò efficacemente l’azione nel combattimento di Ostrowa, alla Moscova, a Mosca, a Malojaroslavetz – ove appunto la Guardia determinò il successo – e in tutti gli scontri della tremenda ritirata. Nelle campagne del 1813-14 comandò la quarta Divisione dell’Armata d’Italia, combatté valorosamente contro gli Austriaci a Bassano, a Calmiero, a Borghetto, Mantova, al Mincio, e si segnalò particolarmente il 17 febbraio 1814, nella battaglia di Maderno.

Già rosseggiava all’orizzonte il tramonto dell’astro napoleonico. Gli avvenimenti precipitavano e l’Italia ne subiva l’immediato contraccolpo, incominciando da Milano: la rivolta del popolo, l’assassinio del ministro Prina, la fuga del Viceré, l’insediamento austriaco… Addio sogni d’indipendenza, addio Regno Italico, addio guardia Reale. Il nuovo Governo s’affrettò a disciogliere i reggimenti, per ricostituirli con altra struttura e diverso spirito; ma gli uomini di Lechi, i granatieri della vecchia Guardia, risolsero di non rimanere al soldo dell’Austria, lo giurarono solennemente e, dovendosi procedere alla consegna degli attributi reggimentali, a Vimercate, dov’erano acquartierati, il 27 aprile compirono una strana cerimonia che rivestì il carattere d’un commovente atto religioso.

Teodoro Lechi aveva sempre riguardato come cosa sacra le due simboliche aquile avute un decennio innanzi dalle mani di Napoleone. Le aveva salvate a stento durante la ritirata di Russia. Erno i più gelosi trofei degli eroici granatieri d’Italia, che li avevano fatti brillare al sole d’Austerlitz e in cento altre battaglie. E dovevano adesso separarsene e vederli profanati dalle grinfie austriache? Ah, no! Egli fece fabbricare due false aquile e le sostituì a quelle vere, che lui e i suoi veterani staccarono dagli stendardi per conservarle segretamente; indi bruciarono le aste e i panneggiamenti che le ornavano, se ne divisero le ceneri nelle zuppe e le ingoiarono, in una sorta di comunione guerriera che aveva pure il suo fondo mistico e sopra tutto un gran senso di poesia.

Deposta la divisa, messa a dormire la spada, il generale Lechi non aveva potuto spogliarsi della sua avversione contro il tradizionale nemico, né del suo amore per il «Piccolo caporale», per l’esule dell’Elba. Volle tener vive quelle fiaccole in sé e in altri, coltivar speranze, preparar progetti. Ma l’Austria gli aveva gli occhi addosso e di lì a poco lo agguantò, lo imprigionò, lo processò come cospiratore e, condannatolo a morte, commutò la sentenza in cinque anni di carcere (con la perdita dei gradi e dei titoli) che gli fece scontare nella tetra fortezza di Mantova.

Liberato nel 1819, Teodoro Lechi, in apparenza domato, tornò nella sua Brescia, dove visse in operoso ritiro- e in stretta sorveglianza sino al 1844, nel quale anno si trasferì a Milano. Il carcere non aveva cambiato il suo animo, né il tempo aveva fiaccato il suo patriottico ardore, e venuto il ’48 egli fu dei primi ad aderire alla congiura che si tramava e a cimentarsi poi nella fiammante rivolta che prese il nome dalle sue Cinque Giornate (foto a destra Figurino autocostruito e dipinto da Claudio Sanchioli). Il 28 marzo Teodoro Lechi assunse il comando della Guardia Civica. Arrestato con 128 dei suoi e imprigionato nel Castello, ne fu tratto dal popolo la mattina del 23, il giorno 26 venne nominato generale in capo della Guardia Nazionale e di tutte le forze militari del Governo Provvisorio, che egli servì attivamente per tutta la durata del suo potere.

Caduta la Repubblica milanese col ritorno dei dominatori stranieri, il Lechi andò profugo in Piemonte, ove Carlo Alberto, incontratolo ad Alessandria, ebbe a dirgli: – A Milano mi chiamano traditore! Vedranno se io sono un traditore!

Il Re nominò il Lechi generale d’Armata accordandogli la pensione inerente a quel grado, e il generale riconoscente offrì al Sovrano le due aquile napoleoniche sottratte alla consegna di Vimercate e da lui nascostamente sempre custodite sin allora. Quanti ricordi si legavano a quei simboli ch’erano passati attraverso tante vicende! Stabilitosi a Torino, egli evocava volentieri le antiche venture visitando ogni giorno un altro esule illustre, vecchio e infermo, Guglielmo Pepe, che lo additava ai giovani dicendo:

“Ecco un mio superiore d’oltre mezzo secolo fa… Sapete, comandava un battaglione delle Legione Italica al passaggio del Gran San Bernardo…”

Il Gran San Bernardo, Bonaparte, Marengo: quali nomi, quali eventi, quanta storia! L’epopea vissuta gli cantava in cuore e Lechi la riviveva quasi sognando. Nel 1852 andò a Parigi per il 15 agosto, e nella cappella degli Invalidi, dinanzi alla tomba dell’Imperatore, assisté alla cerimonia che si svolgeva nel giorno dell’anniversario della nascita di Napoleone. Trovò pochi degli antichi commilitoni, ma ebbe amabili accoglienze dal Napoleone che allora presiedeva la Repubblica Francese, il quale lo volle commensale, lo interrogò sulle battaglie del proprio famoso zio, gli donò una ricca tabacchiera e lo promosse commendatore della Legion d’onore. Poi lo fece grande ufficiale e gli mandò la medaglia commemorativa di Sant’Elena.

Teodoro Lechi, a Torino e più tardi a Milano liberata e italiana, visse di quelle gloriose memorie sino agli ottentotto anni. La sua salma fu trasportata nella nativa Brescia e, sul sepolcro che l’accolse, Antonio Tantardini scolpì un degno monumento.