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La Katana – B. Normanno

La spada, arma per la ricerca del segreto della vita.
UNA SPADA, meglio una katana, sguainata e movimenti rituali come in una danza e un grido sordo o acuto lanciato nel momento in cui la spada colpisce. Il samurai appare al cinema negli anni Sessanta, di solito ha il volto di Toshiro Mifune, grande attore giapponese e tu da ragazzo fantasticavi: tra D’Artagnan e il samurai chi avrebbe vinto? Poi l’Oriente è diventato di casa grazie alle arti marziali prima ancora che alle auto e ai registratori. E con l’Oriente, assieme allo judo e al karate,
ecco lo zen forma alta e insieme fondamentalmente incomprensibile di filosofia buddista, virata attraverso quel caso unico che è (o forse era?) il Giappone. E dietro ai film, dietro alle palestre, alle cinture nere, alle katane una figura antica, il samurai.
Samurai deriva dal verbo suburau , che significa essere al servizio e in Giappone va unito con la parola bushi : combattente, guerriero. Giunto fino a noi dalle brume di un passato lontanissimo (forse i primi veri samurai si formano intorno al 900 dopo Cristo) il samurai si estingue con un seppuku , un suicidio rituale (non chiamatelo harakiri è volgare, la parola esatta è seppuku ) il 26 novembre del 1970, quando l’ultimo che volle essere samurai si rese forse conto della impossibilità del suo desiderio e pagò il suo sogno con lo sventramento effettuato con la katana. La katana, la spada del samurai, il solo acciaio preindustriale davvero inimitabile: rigida nel taglio ed elastica nel dorso, capace, come dice la leggenda, di tagliare una foglia portata dalla corrente di un fiume o una piuma mossa dal vento. Esempio straordinario di un artigianato magico e scientifico insieme, prova di pazienza quasi alchemica e di maestria insuperata. La katana non fu subito l’arma del samurai, nei primi secoli in cui il Giappone sprofondava nell’anarchia e i signori locali, si ritagliavano fette di potere, sostenuto con uomini d’arme, altre furono le armi, più simili a quelle della frontaliera Cina o della vituperata Corea. E forse furono proprio fabbri cinesi o coreani i primi a forgiare qualcosa di simile alla katana.
Ma nel XIII secolo l’arma del samurai, l’uomo d’arme legato al signore feudale da un giuramento di vita e di morte, l’uomo che vive come un morto e che quindi non teme la vita, è già la spada. E le spade, quella lunga, la katana e quella corta il wakizashi , sono il simbolo stesso del Bushido, la via del guerriero. La via più dura perché deve saper fondere durezza estrema e lealtà, sobrietà ed energia, compassione e spietatezza, impassibilità di fronte al mondo e alla morte e fedeltà al proprio capo. Dirà l’ Hagakure , il libro che, secoli dopo la nascita dei samurai, ne codificherà lo spirito: «Un soldato dovrebbe seguire internamente la via della carità e esternamente quella del coraggio», come un guerriero e un monaco insieme. Guerriero e monaco che già nel XVII secolo era salito non solo al vertice delle classi sociali del Giappone ma anche si era evoluto spesso in amministratore, in burocrate, non importa se al servizio dell’Imperatore o dello Shogun, il grande primo ministro che oscurò generazioni di imperatori. Ma l’anima rimaneva la stessa. Prima dello Hagakure c’è un altro scritto, si chiama Il libro dei cinque anelli ed è stato scritto dal più prodigioso spadaccino del suo tempo e forse di tutti i tempi, Miyamoto Musashi, che a 13 anni vinse il primo duello, che affrontava con spade di legno uomini armati con spade d’acciaio e li batteva regolarmente. Sempre sporco e trasandato ma alla profonda ricerca di qualcosa che andasse oltre. Oltre la bravura, oltre la scherma, oltre il valore. Fino ad approdare alla pittura, arte in cui eccelse come nella spada (tracciava con un solo movimento di pennello il cerchio lunare). Lo scritto di Musashi informò di sé i secoli anche quando i samurai che non si erano adattati al nuovo erano diventati ronin , cioè uomini-onda, servi senza padroni e soldati senza più generale, spade in vendita. Ma solo apparentemente perché un samurai ha alla fine un solo padrone, la propria etica. Come i 47 ronin, che, nel 1700, costretto il loro signore a fare seppuku per una grave mancanza si finsero ubriaconi, puttanieri e altro e poi, fatto cadere ogni sospetto, entrarono nel castello del nemico del loro signore e uccisero tutti. Alla fine, anche, naturalmente, se stessi.
L’epoca Meiji, alla fine del XIX secolo non aveva più bisogno di samurai, anzi se ne sbarazzò. Le armi da fuoco, il vapore, l’industria rendevano inutili i guerrieri con la spada. Ma qualcosa del samurai rimase, rimase nei kamikaze, negli ufficiali dell’esercito imperiale.
E rimase nascosto in un corpo fragile del più grande scrittore giapponese dei suoi anni, Yukio Mishima. Il Mishima di cui parliamo non è l’autore di grandi libri come Confessioni di una maschera ma è l’uomo che a oltre 40 anni si dedica al culturismo e si crea un corpo nuovo.Un corpo nuovo per creare un esercito privato e per sequestrare un generale giapponese e arringare i suoi soldati per fare seppuku al grido di «Viva l’imperatore». Ultimo addio dell’ultimo samurai. Ora restano solo i film a ricordarceli, belle immagini ma la sostanza è estinta.