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Cappellani Militari, 1915-1918 – M. Albano, G. Coglitore Garufi e F. Fabrizi

Tra il 1865 e il 1878 infatti, la presenza dei cappellani nell’esercito era stata limitata per motivi di economie di bilancio e mantenuta unicamente in alcuni ospedali territoriali (1) .
In tempo di pace, pertanto, il clero secolare e quello religioso, doveva adempiere al servizio di leva militare come previsto per ogni cittadino, senza alcuna distinzione di trattamento o di ruolo (2).
Solamente in caso di mobilitazione era previsto l’impiego degli ecclesiastici negli ospedali militari, nelle sezioni di sanità, nei posti di medicazione e negli ospedali da campo (3).
Durante la campagna d’Eritrea (1896) e quella della Libia (1911), infatti, il conforto religioso fu prestato ai nostri soldati unicamente da pochi cappellani e da un limitato numero di padri Cappuccini che, volontariamente, si mobilitarono con la Croce Rossa. La loro esigua presenza non poté ovviamente garantire ai soldati schierati sulla linea del fuoco il conforto degli ultimi sacramenti.
Il generale Luigi Cadorna – divenuto capo di stato maggiore dell’esercito nel luglio del 1914 – stabilì con la circolare, del 12 aprile 1915, l’assegnazione di cappellani ad ogni reggimento: più precisamente definiva le unità presso le quali doveva essere assegnato il cappellano: ogni reggimento di fanteria, di granatieri, di bersaglieri, di artiglieria da campagna, ogni battaglione di alpini e guardie di finanza.
Il cappellano era altresì presente negli ospedali e negli ospedaletti da campo, nelle sezioni di sanità, nei treni sanitari, negli ospedali di riserva e territoriali (un cappellano ogni 400 letti).
Quando vennero creati i reparti di arditi, anche questi ebbero il loro cappellano (4).
Con questa decisione, probabilmente, si volle suscitare anche un certo consenso nell’opinione pubblica e nel mondo cattolico nonché favorire l’attività dei cappellani come fattore di coesione morale sulla comune base religiosa e di spirito di disciplina fra le truppe.
L’importanza che il vertice militare attribuì alle istituzioni di carattere religioso, per incutere e rafforzare nei soldati il senso del dovere, lo si vede nel modo in cui vennero anche accettati i cappellani, oltre che di fede cattolica, anche della Chiesa Evangelica Valdese, della Chiesa Battista e di religione ebraica; numerosi furono infatti i rabbini militari, anche se svolsero la loro attività religiosa prevalentemente in occasione delle principali festività ebraiche (5).
Con il Decreto Luogotenenziale n. 1022 del 27 giugno 1915 venne definitivamente stabilito l’ordinamento ecclesiastico nell’esercito italiano e la relativa assimilazione di grado.
Con detto decreto la suprema direzione del servizio spirituale veniva assegnata ad un “Vescovo da campo”, con l’equiparazione al grado ed al trattamento economico di maggiore generale (6); questo aveva la giurisdizione su tutti i cappellani allora presenti nell’esercito italiano fatta eccezione dei pochi appartenenti all’Ordine di Malta (7).
Il vescovo da campo era coadiuvato a sua volta da tre “cappellani vicari”, equiparati a loro volta al grado di maggiore; vi erano poi le figure del “cappellano coadiutore”, del “cappellano capo d’armata”, parificate al grado di capitano, nonché quella del “cappellano ordinario”, equiparato al grado di tenente (8).
La scelta dei cappellani spettava al vescovo di campo che poi la proponeva per la nomina al Ministero della Guerra.
Questa scelta non era cosa semplice, e ciò non solo per la quantità delle domande inoltrate dal clero soggetto agli obblighi di leva o da quello già richiamato alle armi, ma anche dal vaglio delle informazioni sugli aspiranti al ruolo di cappellano che l’Ufficio della Curia Castrense richiedeva.
Inoltre gli ecclesiastici come i seminaristi, i novizi, i chierici, i conversi e i sacerdoti, che non erano parroci o vicari, dalle autorità militari non ebbero nessuna distinzione e vennero considerati come dei qualsiasi soldati ed assegnati alle unità combattenti.
Essi furono impropriamente chiamati “preti soldati”.
Il numero ufficiale dei cappellani militari nominati durante la guerra fu di 2.400 unità (9) e, considerando che i mobilitati furono complessivamente 5.615.000, ciò dimostra l’insufficienza dei cappellani per poter assolvere ad un capillare servizio religioso.
Obiettivamente non era cosa facile poter seguire e prendere cura di un intero reggimento la cui consistenza media era di 3.000 soldati.
La curia castrense (10), tra le sue attività, cercò di porre particolare attenzione anche alla condotta morale e spirituale nonché al comportamento privato di tutti i religiosi e preti militari; in merito a ciò il vescovo di campo mons. Bartolomasi dispose che tutti i cappellani inviassero delle relazioni trimestrali con dettagliate notizie sul comportamento dei preti-soldati presenti nelle rispettive unità a loro assegnate.
L’attività di vigilanza, tuttavia, risultò deficitaria poiché il problema del controllo sui cappellani stessi rimase insoluto (11).
Inoltre mons. Bartolomasi non mancò di sottolineare ai suoi cappellani zelo e prontezza nel loro apostolato, invitandoli ad essere sensibili e vicini alle necessità dei soldati, così da destare in loro un risveglio religioso e risollevare il morale. Essi dovevano studiare, osservare e rispettare le leggi militari come quelle ecclesiastiche.
Ad essi, in deroga alla legislazione ecclesiastica, vennero riconosciute delle particolari facoltà, come ad esempio: dare l’assoluzione di massa, effettuare la compilazione degli atti del matrimonio per procura, la facoltà di apporre alla tabellina diagnostica dei feriti, smistati dai posti avanzati di medicazione, le tre lettere o.c.p. (olio santo – comunione – penitenza) ed impartire l’indulgenza plenaria “in articolo mortis” .
La loro azione doveva anche essere una sorta di propaganda così da far emergere nella truppa i sentimenti più sani, quali l’onestà, la generosità, l’altruismo, il rispetto dei valori personali, l’amor patrio, il valore, l’osservanza di doveri, l’ardimento, l’obbedienza e la rassegnazione al sacrificio.
A tal riguardo il comportamento dei cappellani non fu omogeneo; quelli più nazionalisti, infatti, preferirono tenere discorsi pubblici tendenti al richiamo dei valori patriottici, all’incitamento, alla disciplina, al compimento del dovere militare; mentre altri, o per intima convinzione o perché a contatto con truppe con il morale depresso, preferirono svolgere una propaganda per la guerra, evitando solenni conferenze, ma spiegando a gruppi ristretti di soldati i suddetti argomenti con semplicità.
([b]Foto a lato – Si celebra con altare modellato in ghiaccio con le baionette[/b]). Per l’identificazione dei cappellani militari il Ministero della Guerra con la circolare n. 22950 del 18 novembre 1915, ribadiva che la loro uniforme principale era rappresentata dall’abito talare dell’ordine al quale il sacerdote apparteneva; con controspalline nere e sul braccio sinistro il bracciale internazionale (croce rossa su fondo bianco). Il cappello era quello pastorale, proprio dei sacerdoti, avente però due giri di cordone grigio-verde intorno alla cupola, con i galloni, in argento del distintivo di grado.
Sul davanti del cappello, infine era posto il fregio dell’arma o del corpo, qualora presso di questi vi prestassero servizio.
Al fronte veniva indossata la divisa grigio-verde (12), con gradi sulle maniche, galloni al berretto e stellette a cinque punte sul bavero, era prescritto inoltre il collare ecclesiastico.
Essi portavano, in base alla Convenzione Internazionale di Ginevra, il bracciale internazionale e la croce rossa (10×10) sul petto al lato sinistro della giacca. Al collo, appeso ad un cordone, veniva portato un crocifisso, che generalmente trovava posto nel taschino di destra.
Il cappellano non addetto a reparti combattenti in zona di guerra, invece doveva vestire obbligatoriamente la veste talare; sul bavero figuravano le stellette a cinque punte, mentre sulle contro-spalline erano presenti rosette a otto punte (13).
Durante la Grande Guerra, tra i sacerdoti che fecero parte dell’esercito italiano, compresi i preti-soldati, molti operarono anche in prima linea condividendo con i soldati i pericoli e i disagi, ed offrirono loro non solo l’assistenza spirituale ma, quando poterono, anche quella materiale e ricreativa.
Proprio in merito a quest’ultima dobbiamo ricordare il grande impegno di alcuni di loro, come padre Agostini Gemelli, allora ufficiale medico, don Giovanni Minozzi e da padre Giovanni Semeria (14).
Nel 1916 si realizzò grazie al grande impegno del capitano don Giovanni Minozzi l’unica grande organizzazione assistenziale a favore dei combattenti. Questo cappellano, con il suo forte carattere abruzzese, perseguì il nobile intento di offrire non parole bensì reali “servigi” ai soldati, senza mai scoraggiarsi e farsi abbattere dalle difficoltà; riuscì a scovare finanziatori ovunque, dagli industriali alle famiglie dei nobili, partecipò a formare appositi Comitati civici.
Istituì, inoltre, le “Case del soldato al fronte” (15) – le quali, inizialmente, furono approntate nel Cadore, presso la 4^ Armata, per poi svilupparsi sempre più numerose presso tutte le Armate – successivamente si aggiunsero le “Case volanti”, così dette perché riuscivano a portare perfino nelle trincee tutto quel materiale, quali libri, riviste, giochi, cancelleria e perfino grammofoni, nell’intento di allentare la tensione del soldato e rendere la vita meno dura al fronte.
Un altro compito che assorbiva molto tempo alla maggioranza dei cappellani, era il così detto Ufficio notizie, che mirava a facilitare la comunicazione tra le famiglie dei soldati e l’esercito.
In pratica trasmetteva i dati relativi ai militari caduti, dispersi, feriti, all’Ufficio Notizie Centrale che provvedeva ad avvertire le famiglie (16).
I cappellani nell’esercitare la loro opera di propaganda bellica si avvalsero anche di “fogli-notiziario” e di pubblicazioni varie, come ad esempio “Mentre si combatte” e “La stella del soldato” che fra le truppe ebbero un’ampia divulgazione (17).
Nel primo venivano riportati commenti di brani evangelici adattati ai soldati, racconti di episodi di guerra edificanti e riferimenti di carattere epico-religioso della storia nazionale.
Nel secondo venivano proposte note ed episodi riguardanti le qualità belliche e religiose dei combattenti italiani e degli alleati nonché riflessioni religiose, morali e sulla guerra (18).
Ci fu anche la pubblicazione di un periodico diretto esclusivamente ai cappellani e ai preti-soldati, che s’intitolò “Il Prete al Campo” che ebbe grande diffusione (19).
L’opera di questi sacerdoti mirava a rendere meno dura la vita al fronte; organizzarono, con l’appoggio dei Comandi, i così detti “Posti di ristoro” con rivendita di tabacco, francobolli e saponette, perfino di lavanderie e docce dove i soldati si potevano lavare e spidocchiare.
Organizzarono anche piccole scuole locali per analfabeti, con la presenza di uno scrivano che compilasse le lettere alle famiglie per coloro che non sapevano scrivere.
Questa opera, ritenuta “troppo” meritevole, destò un’insensata opposizione da parte dell’Intendenza Generale dell’Esercito che, nel giugno del 1918 (20), comunicò a tutti i comandi che l’organizzazione delle citate iniziative venivano assegnate ad un maggiore dei carabinieri.
Si pensò che questa decisione avesse una certa correlazione con le “case del soldato” aperte e gestite dall’associazione protestante americana YMCA e che questa potesse, in un certo qual modo, minacciare la fede cattolica dei soldati italiani.
([b]Foto a lato – Altare da campo[/b]). In realtà il pericolo di una attività di propaganda protestante era inesistente, con molta probabilità questo timore risiedeva unicamente presso gli uffici castrensi ed era dovuto alla tradizionale diffidenza cattolica verso i protestanti (21).
Quando i giornali diffusero tale provvedimento, si verificò come logica conseguenza la paralisi dei Comitati Cittadini di Aiuto al Fronte che non vollero più provvedere alla raccolta di denaro.
Nell’attività dei cappellani c’era anche l’assistenza religiosa nei confronti dei prigionieri di guerra – come previsto dai patti internazionali -, i quali, dato lo stato di abbandono psicologico in cui vivevano, avevano un forte desiderio di qualcuno che si occupasse di loro anche sotto il profilo religioso.
Questa assistenza in Italia venne svolta con una certa difficoltà dovuta al fattore multi-etnico presente nell’esercito Austro-Ungarico.
Non era facile reperire cappellani che parlassero almeno una delle lingue in uso nell’esercito austro-ungarico: tedesca, polacca, boema, slovacca, slovena, serbo-croata, ungherese e rumena.
Venne quindi formato un nucleo di 12 cappellani – in forza presso l’ospedale militare del Celio a Roma e alle dipendenze della Commissione per i prigionieri di guerra – che a turno venivano inviati sia nei vari campi di concentramento sparsi in tutta l’Italia, che negli ospedaletti delle retrovie per espletare l’esercizio spirituale.
Proprio in merito alla prigionia, i cappellani militari, se catturati, convivevano con gli ufficiali ed erano separati dai semplici soldati.
In Austria ed in Ungheria essi goderono spesso di un trattamento privilegiato venendo ospitati dal clero cattolico locale (22).
L’azione religiosa, per quanto concerne la Santa Messa, si svolgeva nelle circostanze più diverse, all’aria aperta, utilizzando il set per l’altare da campo o se possibile sfruttando le chiese dei paesi o di cappelle erette a ridosso delle prime linee.
Generalmente i soldati, in particolare quelli di alcuni reparti come gli alpini e quelli negli ospedali, partecipavano alle messe al campo con fervore e, compatibilmente alle circostanze belliche, con costanza.
Accadeva spesso che i cappellani e gli ufficiali si mettessero d’accordo per favorire la piena partecipazione delle truppe alla cerimonia religiosa, assicurandone la decorosa riuscita. Altre volte erano direttamente i cappellani che cercavano il consenso dei militari con accorgimenti che potessero attirare i soldati alle messe al campo: mediante ricompense, premi, regali, come ad esempio indumenti, coperte di lana, camicie, tabacco, sigari e sigarette etc. .
Talvolta, invece, erano proprio le autorità militari a preoccuparsi di garantire la buona riuscita delle funzioni religiose, poiché ritenevano che queste alimentassero il sentimento patriottico e favorissero anche la crescita dello spirito di appartenenza ai reparti.
Nelle prediche ricorrevano soprattutto due ordini di raccomandazioni: la prima riguardava l’osservanza alla moralità dei costumi e al linguaggio, evitando il vizio della bestemmia, del turpiloquio e della disonestà. La seconda raccomandazione si concentrava sull’amor patrio, sull’adempimento del proprio dovere, sullo spirito di sacrificio, sul rispetto dell’autorità. Anche se non mancarono cappellani che sotto il profilo patriottico erano di sentimenti moderati e che preferirono una predicazione su temi prettamente religiosi
I rapporti tra cappellani, ufficiali e soldati furono particolari; generalmente i cappellani avevano una certa attenzione nei confronti degli ufficiali, ovviamente con le dovute eccezioni.
Questo comportamento non passò inosservato e venne riscontrato anche dal periodico “Il Prete al campo” che in numerosi articoli biasimò il comportamento di quei cappellani che mostravano di sentire più il grado militare che la cordialità pastorale con i soldati (23).
Questi combattenti comprendevano e stimavano principalmente tutti coloro che come loro vivevano, soffrivano e ne condividevano le sofferenze, le pene e le atrocità della guerra.
I cappellani pertanto patirono tra la truppa oltre che un certo anticlericalismo anche un diffuso sospetto di imboscamento e di iattùra, dovuta alla loro scarsa presenza e per la rarità delle loro visite tra i soldati (24).
Vi furono, tuttavia, anche dei cappellani che suscitarono tra la truppa grande rispetto, ammirazione, stima e che, sostituendosi agli ufficiali caduti, condussero le truppe all’offensiva; che esortarono a combattere spiegando la necessità assoluta della vittoria; che portarono munizioni durante i combattimenti; che si improvvisarono porta-ordini, ufficiali di collegamento; che si offrirono volontari per pericolose missioni; che per primi uscirono dalle trincee; che si sacrificarono e morirono a fianco dei feriti e moribondi pur di dar loro il sostegno materiale e religioso. Nobile figura di questi fu padre Reginaldo Giuliani, cappellano decorato degli arditi.
([b]Foto a lato – Messa in prima linea[/b]). Tutto ciò trova conferma nelle 435 ricompense al valore concesse ai cappellani nel 1915-1918.
La stampa cattolica, inoltre, diede del corpo dei cappellani un’immagine d’elite e venne descritto come un’aggregazione dei migliori elementi ecclesiastici capaci di coniugare tra di loro gli obblighi apostolici con l’appello patriottico.
Anche la selezione operata dalla curia castrense alle domande del clero per la nomina a cappellano, contribuiva a dare al corpo un’immagine elitaria.
Anche se, in realtà, tra i singoli cappellani vi era una differenziazione data dalla diversa intensità del proprio sentimento patriottico.
Significativa fu ad esempio la reazione dei cappellani alla famosa nota di Benedetto XV del 1° agosto 1917, con la quale il Papa definì la guerra come “inutile strage”.
Essi reagirono in modo differente alle aspre polemiche che vennero portate dagli ambienti militari. Alcuni cappellani, infatti, per un profondo senso di obbedienza ecclesiastica difesero l’operato del Papa; altri, invece, rinunciarono a farlo disapprovando, più o meno palesemente, la nota papale per i suoi pericolosi effetti disfattisti sull’animo e sul morale dei soldati, di cui essi stessi si sentivano corresponsabili.
Sulla tale base si potrebbe quindi fare una classificazione di massima della tipologia dei cappellani, basandola principalmente su tre fasce: la prima comprende l’immagine del cappellano medio caratterizzato da sentimenti apertamente patriottici più o meno accesi.
La seconda vede i cappellani con un orientamento decisamente nazionalista; la terza fascia, infine, comprendente i cappellani moderati nelle espressioni patriottiche e che preferirono soffermarsi maggiormente sullo svolgimento dell’esercizio religioso, senza tuttavia sconfessare l’azione morale.
Anche Angelo Giuseppe Roncalli, poi divenuto Papa Giovanni XXIII, di decise convinzioni patriottiche, partecipò alla Grande Guerra, prima come sergente nella sanità poi come cappellano militare; espletò il suo servizio presso l’ospedale di Bergamo con scrupoloso senso del dovere e senza particolari dubbi sulla legittimità del conflitto.
In merito alla tipologia dei cappellani, contempliamo anche quelli non cattolici, come i nove cappellani militari valdesi che possono essere assimilati alla prima fascia delle tre sopra citate, e i rabbini militari che svolsero un’attività atipica – ovvero solamente in occasione delle festività ebraiche – (25).
Vi furono, infine, i “preti-soldati” che nel corso del conflitto furono oltre 22.0000.
La guerra a questi militari ecclesiastici pose gravi problemi di natura personale e spirituale. Il loro comportamento tuttavia fu caratterizzato da una piena obbedienza alle autorità militari e da una disciplinata disponibilità a compiere il proprio dovere.
In loro era radicata la mentalità del rispetto e dell’obbedienza nei confronti dell’autorità costituita, valore cattolico importante secondo il quale ogni autorità viene da Dio e le si deve obbedienza.
La presenza dei preti-soldati rivestì nell’esercito una caratteristica molto diversa da quella dei cappellani.
Infatti condividendo con i soldati le fatiche, gli stenti, i pericoli e la solidarietà di chi viveva i medesimi problemi, proposero un’immagine del clero in divisa assai diversa da quella dei cappellani, svolgendo una capillare azione religiosa che godeva di maggiore credibilità e fiducia da parte dei loro compagni d’armi, e ricoprendo un più sentito e attivo ruolo religioso.
Notevole fu il loro impegno per l’istruzione ed il conforto religioso ai soldati, divennero spesso loro confidenti spirituali; in altre circostanze, invece, assistettero e consolarono i feriti e gli ammalati, specialmente in prima linea, sostituendosi o coadiuvando l’attività dei cappellani.
Nel corso della guerra ben 1.582 preti-soldati ricevettero i gradi di ufficiale (26).
Per tutti questi soldati di Dio e della Patria, nel rispetto dei soldati di tutte le fedi, ricordiamo le parole scritte da un anonimo soldato sulla pareti di una galleria delle Tofane: “Tutti avevano la faccia del Cristo, nella livida aureola dell’elmetto, tutti portavano l’insegna del supplizio nella croce della baionetta, e nelle tasche il pane dell’Ultima Cena, e nella gola il pianto dell’ultimo Addio.”.
E, come disse don Paolo Borselli, “ Chi muore per la Patria muore nel Signore!” (27).

Note e Bibliografia

(1) F. A. PUGLIESE, Storia e legislazione sulla curia pastorale alle forze armate, Torino 1956, pp. 52-53.
(2) A. G. RONCALLI, Il giornale dell’anima, Roma 1978, pp. 102, 118, 365-369.
(3) Cfr. Istruzioni per la mobilitazione e formazione di guerra nell’esercito – approvate nel 1883 – t. III, art. 259.
(4) F. FONTANA , Croce ed Armi – L’assistenza spirituale alle Forze Armate Italiane in pace e in guerra (1915 – 1918), Ed. Marietti, pp. 12-13. Inoltre l’art. 15 del famigerato Patto di Londra, stipulato il 26 Aprile 1915 fra la Francia, l’Inghilterra, l’Italia e la Russia, precisava “ La Francia, la Gran Bretagna e la Russia prendono l’impegno di appoggiare l’Italia nel non permettere ai rappresentanti della Santa Sede di intraprendere qualsivoglia azione diplomatica, riguardo alla conclusione della pace ed alla soluzione di questioni connesse con la guerra”. Ciò assunse un aspetto quasi offensivo nei confronti della Santa Sede; tuttavia, quasi in contrapposizione, il Generale Cadorna in qualità di Comandante Supremo, con la circolare del 12 Aprile 1915, intese assicurare l’assistenza religiosa al soldato italiano.
(5) Sui cappellani valdesi, cfr. in Archivio della Tavola Valdese (Torre Felice) la B. Cappellani militari 1915-1918. Sui rabbini militari, cfr. F. SERVI, Gli Israeliti italiani nella Guerra 1915 – 1918, Torino 1921 . Cfr. G. BEDARIDA, Ebrei in Italia, Livorno 1950, pp. 229-230.
(6) Per tutta la durata della guerra fu vescovo di campo il mons. Angelo Bartolomasi, il quale – come stabilito dal Decreto del 27 Giugno 1915 nominò i tre vicari, rispettivamente, il mons. Carlo Maritano, per la zona di guerra; il mons. Rodolfo Ragnini, per la marina; mons.
Michele Cerrati, per la direzione dell’ufficio centrale della curia castrense, ospitato nei locali del Pontificio Collegio Capranica di Roma.
(7) A. BERNAREGGI. Il clero negli eserciti. I cappellani militari. pp. 416 e 421. I cappellani militari del Sovrano Ordine Militare di Malta,
solamente sei in tutto l’esercito, all’inizio del 1916, dipendevano direttamente dal protettore dell’Ordine, il cardinale Gaetano Bisleti; tra
questa ristretta cerchia, non gerarchicamente subordinata al vescovo di campo, rientrarono alcuni tra i più noti cappellani, come don
Giovanni Minozzi e don Pirro Scavizzi .
(8) Cfr. F. FONTANA, op. cit. p. 18. La nomina a cappellano era molto ambita, non solo perché evitava la condizione del così detto “prete-soldato”, ma anche per l’equiparazione al ruolo degli ufficiali e relativo trattamento economico, per il rispetto nonché per la libertà
dell’esercizio religioso.
(9) Dato reso noto nel 1919 dalla Santa Sede. Cfr. L’operato del clero e del laicato cattolico in Italia durante la guerra (1915-18), a cura della Sacra Congregazione Concistoriale, Roma 1920, p.107 (anche se c’è motivo da ritenere che nel complesso furono oltre 2.700). Per la figura dei preti-soldati, cfr. F. FONTANA, op. cit. pp.13-14.
(10) La Curia Castrense – o Curia Militare – aveva la giurisdizione pastorale sul clero alle armi. Pertanto aveva il compito di curare,
amministrare, guidare, assicurare lo zelo e l’attività dei cappellani per l’assistenza religiosa alle Forze Armate . Cfr. F. FONTANA, op. cit. pp. 14-19.
(11) Archivio Ordinariato Militare d’Italia, B, Carteggio vario guerra 1915-1918 (2) – (4).
(12) Il Ministero della Guerra, con circolare n. 306 del 20 marzo 1916, estese a tutti i cappellani la facoltà di indossare la divisa grigio-
verde – con le stesse direttive – la permetteva anche ai pastori evangelici ed ai rabbini in forza presso l’esercito italiano.
(13) Per la divisa cfr. SME, Ufficio storico, L’uniforme grigio-verde (1909-1918), Roma 1994,
(14) Padre Giovanni Seteria, nato a Coldiro di (IM) il 26/9/1867 e morto a Sparanise (CE) il 13/3/1931.fece parte della comunità religiosa dei Barnabiti. Dopo la laurea in Filosofia, conseguita all’Università La Sapienza di Roma, partì come cappellano militare, su richiesta del generale L. Cadorma prestò servizio anche presso il suo Comando Supremo. Fu amico di Pascoli, De Amicis, Fogazzaro,
Salvatori, Gallarati Scotti, Don Bosco, padre Gemelli e di molti altri personaggi. Con don G. Minozzi fondò l’Opera Nazionale per il
Mezzogiorno d’Italia, con centinaia di scuole, orfanotrofi e colonie in tutta l’Italia.
(15) R. MAROZZO DELLA ROCCA, La fede e la guerra, Ediz. Studium, Roma 1980, pp. 36-37.
(16) P. MELOGRANI, Storia politica della grande guerra 1915–1918, Bari 1969, p. 132
(17) La pubblicazione “Mentre si combatte”, si componeva di quattro facciate di 21×15 cm. ed usci il 6 giugno 1915 con periodicità
settimanale. Mentre ”La stella del soldato”, composta da otto facciate di 23×17 cm. aveva periodicità quindicinale ed era a cura delle congregazioni mariane di Roma.
(18) R. MAROZZO DELLA ROCCA, op. cit. pp. 42-44.
(19) L’idea del periodico il “Prete al Campo” fu di un valoroso sacerdote, ufficiale di fanteria, e venne accolta con entusiasmo da un
gruppo di preti romani. Il programma del periodico fu brillantemente esposto dal suo direttore don Giulio De Rossi e l’opera si affermò a tal punto che il Pontefice Benedetto XV fece arrivare alla redazione una sua lettera di lode e benemerenza. Venne apprezzata anche dalle autorità militari e civili. In merito cfr. AAVV. “Carroccio Novissimo”, Tipogr. S.Lega Eucaristica, Milano 1918.
(20) Con circolare n. 82400.
(21) R. MAROZZO DELLA ROCCA, op. cit. pp. 18-19.
(22) Presso l’Ordinariato militare sono conservate numerose relazioni rese dai cappellani reduci dalla prigionia (cfr. AOMI, Relazioni dei
cappellani Ex-prigionieri).
(23) R. MAROZZO DELLA ROCCA, op. cit. pp. 58-71
(24) E. LORENZINI, La guerra e i preti soldati, cit. pp. 68-70 . P. BRANDI, Le mie memorie di guerra, cit. p. 69. Dalle Relazioni dei cappellani militari (Cfr. Archivio dell’Ordinariato Militare d’Italia, B. Relazioni), emerge un quadro generale della religiosità dei soldati.
(25) In merito alla tipologia dei cappellani cfr. Archivio della Tavola Valdese (a Torre Pellice), B. Cappellani militari 1915-1918, f. Giovanni Bonnet. Cfr. Archivio dell’Ordinariato Militare d’Italia, B. Relazioni e B. Carteggio vario guerra 1915-1918, n. 2.
(26) Questo dato in L’operato del clero e del laicato cattolico, op. cit. p. 107.
(27) in AAVV ““Carroccio Novissimo”, Tipogr. S.Lega Eucaristica, Milano 1918